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Psicologia delle pandemie: selezione di articoli in inglese

  • Avere un buon leader può fare la differenza durante una pandemia globale?

    Caroline Kranabetter e Cornelia Niessen (2016). How Managers Respond to Exhausted Employees.Journal of Personnel Psychology, 15, 106-115. 

    A partire da marzo 2020, a causa della COVID-19, la maggior parte delle aziende è stata costretta a riorganizzare il proprio lavoro e a gestire una situazione i cui tutti, o la maggior parte, dei propri dipendenti lavora da casa. In una situazione così delicata e soprattutto inattesa, avere un buon leader in azienda può fare la differenza. Uno studio di Kranabetter e Niessen ha voluto indagare come reagiscono i manager in situazioni in cui i dipendenti si mostrano affaticati dalle varie situazioni lavorative; confrontando inoltre, questi comportamenti con altri stili di leadership più generali e indipendenti dal contesto. I partecipanti allo studio sono stati reclutati tramite i social network in maniera volontaria. I manager sono stati intervistati attraverso un protocollo di intervista semi-strutturato della durata di 35 minuti. Sono stati indagati i comportamenti di leadership, in particolare modo: come i manager raccolgono informazioni sull'affaticamento dei dipendenti, come sviluppano piani d'azione, come eseguono le rispettive azioni e il modo in cui cercano feedback per verificare se queste hanno avuto successo. Il confronto tra comportamenti di leadership specifici per il contesto e stili di leadership generali ha dimostrato che quando è necessario fronteggiare una situazione i cui i dipendenti riportano un severo affaticamento la leadership tende ad essere esercitata attraverso comportamenti afferenti alla leadership trasformazionale: 1) riflettere sulla situazione, effettuare una ricerca, cercare assistenza e consulenza, (2) attendere, mantenere aperta la questione, accettare se il dipendente resiste all'aiuto, (3) riflettere sul proprio comportamento di leadership, (4) consentire il recupero immediato, (5) fornire autonomia e (6) gestire i conflitti. È importante che, anche in una situazione come quella dell’attuale emergenza, i dipendenti sentano di poter contare sul loro leader e sulla sua capacità di modificare stile di leadership quando ci sono dei cambiamenti in atto. 

  • La fiducia nei team virtuali

    C. Brad Crisp e Sirkka L. Jarvenpaa, S.L. (2013). Swift trust in global virtual teams: Trusting beliefs and normative actions. Journal of Personnel Psychology, 12, 45-56.

    L’epidemia da COVID-19 ha modificato le abitudini di ciascuno di noi. È cambiata la vita sociale, personale e quella lavorativa. La maggior parte degli individui è stata invitata a lavorare da casa tramite smart working. In questa realtà è risultata di fondamentale importanza la capacità delle persone di lavorare da remoto attraverso team virtuali. A questo proposito Crisp e Jarvenpaa hanno condotto uno studio il cui obiettivo principale era quello di comprendere come una variabile quale la fiducia nel prossimo, e in questo caso nel proprio team, rafforzi i rapporti lavorativi. La fiducia ha bisogno di essere calibrata dalle azioni, e dunque l’intenzione degli autori era anche quella di indagare il legame tra la fiducia e la prestazione del team. Hanno partecipato allo studio, durato 8 settimane,  settanta squadre di quattro membri ciascuna, in cui studenti dei quattro continenti sono stati invitati a redigere un business plan mentre imparavano a lavorare virtualmente. I partecipanti sono stati reclutati attraverso il loro docenti e tutti hanno compilato un modulo di consenso per l'iscrizione. Molti hanno ricevuto un credito scolastico per la partecipazione. Gli autori hanno cercato di massimizzare la diversità culturale, temporale e geografica all'interno dei team e nello stesso tempo di minimizzare le differenze tra le squadre. I risultati hanno rafforzato l'importanza della fiducia come “collante” all’interno di un team di lavoro virtuale. La fiducia è anche un punto critico per far emergere lo sforzo rispetto alle azioni normative, ossia le regole che devono seguire i vari membri di una squadra che lavorano insieme. È stato inoltre dimostrato che è necessario un monitoraggio per mantenere le convinzioni che sostengono la fiducia nei team virtuali. Lo studio dimostra dunque che godere della fiducia del proprio team facilita il lavoro, anche in una situazione come quella attuale, ossia di emergenza globale, e nello stesso tempo favorisce il progresso dell’economia.

  • Pandemia globale e cambiamenti lavorativi

    Heather J. Gordon, Evangelia Demerouti, Pascale M. Le Blanc e Tanja Bipp (2015). Job crafting and performance of Dutch and American health care professionals. Journal of Personnel Psychology, 14, 192-202.

    Il 2020 è stato caratterizzato da una pandemia che ha coinvolto quasi l’intero globo terrestre. La situazione d’emergenza sanitaria dovuta alla COVID-19 ha costretto le aziende a rivedere le proprie richieste e risorse di lavoro. Uno studio del 2015 di Gordon, Demerouti, Le Blanc e Bipp ha indagato come risorse e richieste di lavoro erano correlate con la creazione dei posti di lavoro e come questo legame poteva essere messo in relazione con le prestazioni degli operatori sanitari americani e olandesi. La ricerca ha utilizzato un disegno trasversale e interculturale che ha confrontato due gruppi di operatori sanitari provenienti dagli Stati Uniti e Paesi Bassi. In entrambi i Paesi, i partecipanti erano infermieri per oltre il 75% e meno del 25% era invece composto da specializzandi o dottori part-time e full-time. I dati sono stati raccolti attraverso due sondaggi online. Le variabili misurate erano: le richieste di lavoro, le risorse di lavoro, la creazione del lavoro e la prestazione degli operatori.                                                 

    Il presente studio ha utilizzato il modello di Baker e Demerouti's JD-R model che hanno portato alla conclusione che gli operatori sanitari negli Stati Uniti e in Olanda influenzano in modo proattivo il loro lavoro regolandolo in base alle proprie preferenze lavorative, che si riferisce positivamente alle loro prestazioni. La creazione di posti di lavoro può essere una nuova alternativa alla visione medica tradizionale su strategie di lavoro ottimali. Le organizzazioni possono fornire agli operatori sanitari il supporto e gli strumenti per adattare il proprio lavoro all’ambiente, alle loro esigenze individuali e organizzative. Offrire l'opportunità di partecipare alla creazione di posti di lavoro e condividere "ciò che funziona" potrebbe essere il primo passo verso il miglioramento dell'assistenza sanitaria. Anche questa ricerca rivela un problema nella cultura medica dagli Stati Uniti e dell’Olanda. Il personale sanitario deve far fronte a crescenti richieste di lavoro. Quando le richieste diventano troppo elevate, l'operatore sanitario potrebbe non essere in grado o non attrezzato (ad esempio, per mancanza di risorse) a far fronte alla situazione o a tamponare gli effetti negativi, che possono essere dannosi per la pratica medica, portare a errori medici o eventualmente a esaurimento. Sarebbe opportuno un’integrazione di strategie di lavoro poiché le culture differiscono nelle loro motivazioni umane e negli ambienti di lavoro, è importante capire le esigenze differenti di ciascun individuo e organizzare un ambiente in cui gli operatori sanitari siano proattivi nel lavorare bene. 

  • Il clima favorevole al lavoro protegge dalla dissonanza emotiva?

    Silvia Ortiz-Bonnín, M. Esther García-Buades, Amparo Caballer e Dieter Zapf (2016). Supportive climate and its protective role in the emotion rule dissonance–emotional exhaustion relationship. A Multilevel Analysis. Journal of Personnel Psychology, 15, 125-133.

    Nell’ultimo periodo, le vicende legate al Coronavirus, e le misure adottate in conseguenza, hanno avuto un profondo impatto sulla nostra vita e provocato un grande impatto emotivo. La maggior parte degli operatori sanitari così come anche tutte le persone che nonostante l’emergenza sanitaria hanno dovuto continuare il proprio lavoro hanno sperimentato, a vario titolo, episodi di dissonanza emotiva.

    Nel 2016, Ortiz-Bonnín, García-Buades, Caballer, Zapf, hanno condotto uno studio dove veniva ipotizzato che un clima favorevole a lavoro poteva fornire ai dipendenti le risorse emotive per far fronte allo sforzo derivato dalla dissonanza emotiva. Il clima favorevole, in questo caso, si riferisce al grado in cui le relazioni tra i membri del gruppo sono caratterizzate da amicizia e cooperazione. I partecipanti a questo studio erano 317 impiegati di età media 32 anni, che lavoravano in hotel situati sulla costa mediterranea spagnola. La partecipazione dei dipendenti è stata anonima e volontaria. Tutti i dipendenti dello studio hanno completato un questionario durante l’orario di lavoro. Come primo risultato gli autori hanno riscontrato un effetto principale del clima favorevole sull’esaurimento emotivo ossia hanno riscontrato che i sentimenti collettivi di supporto sociale a livello di squadra possono ridurre le esperienze individuali di burnout. Il secondo risultato più rilevante dello studio è l’effetto moderatore del clima favorevole sulla relazione ben stabilita tra dissonanza emotiva ed esaurimento emotivo cioè i risultati rivelano che i dipendenti che lavorano in team con un clima a basso supporto sono più vulnerabili alla sensazione di stanchezza emotiva dopo aver sperimentato dissonanza emotiva rispetto ai dipendenti che lavorano in team con un clima favorevole. Il terzo risultato importante è che sembra sia possibile promuovere la sensazione di supporto emotivo, permettendo ai dipendenti di sfogare le emozioni dopo un’interazione spiacevole. Questa ricerca conferma quindi che lavorare in un clima favorevole possa contribuire a ridurre l’esaurimento emotivo.                                                                       

    In considerazione della situazione attuale, sarebbe opportuno incrementare i programmi di sopporto emotivo e psicologico a tutti i lavoratori che si sono trovati in prima linea in questa situazione di emergenza sanitaria senza precedenti, perché un buon clima lavorativo contribuisce al benessere psicofisico dell’individuo.

  • Fase 2: Il distanziamento sociale verrà davvero rispettato?

    Paul S. F. Yip e Pui Hing Chau (2020). Physical Distancing and Emotional Closeness Amidst COVID-19. Crisis

    A seguito della comparsa della COVID-19, lo scorso aprile Yip e Chau hanno pubblicato una riflessione sulle conseguenze di questa malattia a livello personale e sociale. I due ricercatori hanno preso in esame tutti gli elementi che hanno caratterizzato i primi mesi del 2020, a partire dalla forte raccomandazione del distanziamento sociale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per finire con tutto ciò che comporta un cambiamento del nostro quotidiano. Un quotidiano che è cambiato, che per certi aspetti ha dovuto subire delle evoluzioni mai riscontrate prima, adattandosi  alla convivenza con il virus. L’inizio della pandemia ha comportato un’ondata di limitazioni e chiusure con lo scopo di ridurre al minimo il contagio. Sono stati annullati eventi sociali come gli incontri sportivi, matrimoni e funerali. Le scuole sono state chiuse e il lavoro, dove possibile, svolto da casa. Alla prima gestione dell’emergenza, ha fatto seguito la cosiddetta Fase 2, che prevede norme prestabilite: distanziamento sociale, mascherine e guanti, nessun assembramento. Una fase dove la responsabilità del contagio è nelle mani di ciascuno di noi. Il benessere mentale di tutte le persone è diventato oggetto di discussione per la maggior parte degli scienziati, con uno sguardo al passato, quando l’epidemia di SARS del 2003 ha portato ad un aumento di suicidi nelle persone anziane e un rischio maggiore nella popolazione adulta. La riapertura graduale delle attività produttive e commerciali ha l’obiettivo di ridurre una delle paure maggiori raccolte in questi due mesi dai vari centri di ascolto psicologico: la paura di diventare povero. L’ansia e la paura sono delle presenze silenziose in tutte le pandemie. Ci viene chiesto di mantenere il distanziamento fisico ma non quello emotivo, siamo invitati a fare un massiccio utilizzo di tecnologia per evitare il contatto. Siamo chiamati ad esercitare una responsabilità condivisa.

  • L’intensificazione del lavoro durante l’emergenza COVID-19 ha bisogno di strategie di sopporto?

    Bettina Kubicek e Sara Tement (2016). Work Intensification and the Work-Home Interface.The Moderating Effect of Individual Work-Home Segmentation Strategies and Organizational Segmentation Supplies. Journal of Personnel Psychology, 15, 76-89.

    Negli ultimi anni l’intensificazione e la distribuzione del lavoro oltre i confini rigidi delle sedi lavorative hanno comportato effetti sulla vita dei dipendenti, che hanno avuto a che fare con la segmentazione del lavoro, il conflitto che deriva dallo svolgere un’attività lavorativa a casa e l’arricchimento che questo può dare. Nell’attualmente situazione di emergenza sanitaria, stabilire i confini tra casa e lavoro è difficile. Uno studio effettuato preso l’Università di Vienna da Kubicek ha visto reclutati studenti e impiegati regolari con importanti responsabilità domestiche, che hanno compilato test carta e matita. Un secondo studio invece è stati condotto preso l’Università della Slovenia da Tement. In questo caso, il campione è stato selezionato online, attraverso un link che invitava i partecipanti alla compilazione di un questionario, richiedendo loro di valutare l’intensificazione percepita del lavoro, il conflitto tra lavoro e attività domestica, l'arricchimento del lavoro da casa e la segmentazione del lavoro a casa. Complessivamente, entrambi gli studi hanno fornito supportoa favore dell’ipotesi che lavorare da casa comporti un’intensificazione del lavoro percepita negativamente. Più precisamente, i dati dimostrano che l’intensificazione del lavorocorrela positivamente con il conflitto tra attività lavorative e domestiche. Per contrastare questo tipo di effetto nel conflitto lavoro-casa, possono essere messe a punto strategie di gestione dei confini che favoriscono un più efficace mantenimento del distacco mentale.

     

  • Che strategie usare per affrontare lo stress derivato dal periodo di quarantena?

    Gabriele Oettingen, Doris Mayer e Babette Brinkmann (2020). Mental Contrasting of Future and Reality. Managing the Demands of Everyday Life in Health Care Professionals. Journal of Personnel Psychology

    Negli ultimi mesi la vita di tutti noi è cambiata. Il lavoro non è più lo stesso. Siamo in un momento storico in cui possiamo comunicare, lavorare, viaggiare, navigare su internet. Da quando è iniziata la pandemia della COVID-19, la maggior parte della popolazione è stata invitata a lavorare da casa, ed è stato fatto un massiccio uso della tecnologia per amplificare il contatto umano. Ciò nonostante, non diminuisce lo stress lavorativo, o semplicemente la situazione di stress emotivo che molti vivono a causa di preoccupazioni lavorative o di salute. Molti psicologi si sono chiesti quali potrebbero essere le strategie da adoperare di fronte a questa situazione.  Qualche anno fa Oettingen, Mayer e Brinkmann hanno condotto una ricerca sul contrasto mentale, che è quella tecnica che prevede di focalizzare l'attenzione prima su ciò che vogliamo e poi su ciò che può impedirci di ottenerlo. A questa ricerca hanno partecipato 52 dirigenti che venivano assegnati in modo casuale a 2 condizioni: una in cui veniva insegnato ai partecipati a utilizzare il contrasto mentale per risolvere i problemi che si presentano nella vita quotidiana; e una seconda in cui i soggetti venivano invitati ad essere più indulgenti verso la situazione problematica che avevano di fronte. Alla fine del periodo, i soggetti assegnati alla prima condizione avevano avuto più successo nella gestione del proprio tempo, nel completamento dei progetti e una difficoltà minore nel prendere delle decisioni. Probabilmente imparare a usare il contrasto mentale nella situazione attuale, per certi aspetti caratterizzata dall’incertezza dell’avvenire, rappresenta uno dei vantaggi di questo strumento cognitivo.

  • Le teorie del complotto minacciano l’autorità scientifica?

    Seth C. Kalichman (2014). The psychology of AIDS denialism: Pseudoscience, conspiracy thinking, and medical mistrust. European Psychologist, 19(1), 13-22

    Perché è più facile credere alle teorie del complotto che alla comunità scientifica? Perché esse vantano un così gran numero di sostenitori? Nel web si possono trovare molte teorie e speculazioni. Tra queste ad esempio, quella che nega l’esistenza dell’AIDS, un virus che fece la sua prima apparizione sul finire degli anni ’80 del secolo scorso. Attraverso una rassegna della letteratura, Kalichman ha indagato le ragioni di questa negazione e il suo radicamento nel pensiero comune, mettendo in luce l’atteggiamento di chi sceglie di ignorare tutti gli studi che inconfutabilmente dimostrano che il virus dell'HIV causa la malattia nota con il nome di AIDS. È facile osservare come oggi, allo stesso modo oggi, si stanno facendo strada pensieri simili in riferimento alla COVID-19. Tra le ipotesi che circolano sul web, molti sostengono che si possa identificare come uno strumento di sterminio, oppure che sia un’arma batteriologica creata a Wuhan la quale in maniera accidentale è fuoriuscita dal laboratorio provocando i contagi. Questa pandemia e la sua gestione riflettono il momento storico attuale, che si caratterizzata per l’estrema facilita di reperire informazioni. Purtroppo, con la diffusione dei social network sono aumentati anche i falsi miti, le fake news e la disinformazione. In un’epoca in cui siamo circondati dalla tecnologia e dalla possibilità di esprimere un’opinione anche su argomenti in cui siamo privi di competenze questo ci rende molto più vulnerabili che nel passato. Sarebbe opportuno creare dei programmi con lo scopo ultimo di educare i consumatori a distinguere la qualità delle informazioni a disposizione e saperne riconoscere l’attendibilità. 

  • La trasparenza sui dati della Covid-19 è un bene o un male?

    Julie Qiuyan Liao e Richard Fielding (2014). Trust and preventive practices in respiratory infectious diseases. European Psychologist, 19(1), 4-12.

    In questi ultimi anni, l’esplosione di internet ha permesso a milioni di persone di informarsi attraverso la rete circa malattie e possibili modalità di guarigione. Questa grande disponibilità di informazioni ha intaccato la fiducia che le persone riponevano verso i medici: infatti, ognuno di noi ha a disposizione delle informazioni per verificare o falsificare ciò che il medico prescrive. In questo momento così difficile, però, non si hanno molti dati circa il coronavirus e, insieme alla larga diffusione di fake newsciò determina un aumento della fiducia delle persone verso la medicina tradizionale. Numerosi studi hanno mostrato come al concetto di fiducia si leghi quello di credibilità: le persone possono accordare fiducia solo a interlocutori che ritengono credibili: per questo motivo, in paesi dove il problema della corruzione è maggiormente sentito si ha una bassa fiducia verso le istituzioni, anche in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo. Inoltre, il modo con il quale viene gestita l’emergenza fornisce numerose informazioni alle persone che sono in grado di aumentare o diminuire la fiducia che forniscono alle istituzioni. Altri studi hanno evidenziato come le persone assegnino elevata fiducia alle statistiche circa il numero di contagi che si registrano ogni giorno, e sulla base di questi numeri sviluppano delle inferenze personali sulla probabilità di essere contagiati: queste valutazioni hanno un’ampia base emotiva e sono le principali cause dei comportamenti che mettono in atto; questi, inoltre, variano con il passare del tempo. Infatti, le direttive per il contenimento del virus vengono ampiamente rispettate nelle fasi iniziali, nelle quali si ha una maggior percezione soggettiva di rischio unita a statistiche drammatiche, mentre tendono a essere progressivamente ignorate con il passare del tempo in virtù del fatto che molte persone non si sono ancora contagiate, diminuendo la propria percezione soggettiva di rischio, e da statistiche di contagio incoraggianti. In sintesi, i risultati di questa rassegna forniscono indicazioni tra loro contrastanti: da un lato è necessario aumentare la fiducia delle persone verso le istituzioni, ad esempio attraverso una grande trasparenza nella diffusione dei dati relativi al contagio, dall’altro è necessario non diminuire la percezione soggettiva di rischio, come accade quando i dati relativi al contagio migliorano, al fine di determinare maggiori comportamenti in linea con le prescrizioni delle autorità. Alla luce di ciò, quindi, sembrerebbe utile un programma di comunicazione improntato alla trasparenza nelle fasi iniziali, per acquisire fiducia nel momento in cui i dati sono negativi e aumentano la percezione di rischio personale, per poi diminuire la comunicazione di questi dati nel momento in cui la fiducia è già stata acquisita e la loro costante comunicazione può portare ad un minor rischio soggettivo percepito.

  • La fiducia pubblica è persa per sempre?

    Adrian Bengert (2014). Investigating and Rebuilding Public Trust in Preparation for the Next Pandemic. European Psychologist, 19(1),1-3.

    Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalla comparsa di una serie di malattie che hanno sconvolto le abitudini delle persone. Adrian Bangert stila un elenco: la SARS (sindrome respiratoria acuta grave), l'epidemia di H5N1 (influenza aviaria), la pandemia di H1N1 (influenza suina). Quest’ultima fu dichiarata dall’OMS la prima pandemia globale del ventunesimo secolo. Questa ricerca mette in evidenza come la mancata risposta immediata da parte di autorità scientifiche con un vaccino in grado di porre fine al contagio, abbia abbassato la fiducia nella sanità e lasciato spazio ad un atteggiamento di cinismo nei confronti delle organizzazioni, delle aziende farmaceutiche e dei media. Per porre fine a questa crisi di fiducia Bengert nota come sarebbe opportuno che i ricercatori iniziassero a considerare il pubblico come maggiormente in grado di comprendere le informazioni tecnico-scientifiche e mettendole a disposizione di chiunque desideri colmare il deficit di conoscenza generale. I problemi che minano la fiducia sono: la disponibilità eccessiva di fonti di informazione, esposizioni retoriche senza possibilità di replica, difficoltà nel metodo di ricerca utilizzato. Attualmente, nonostante gli sforzi del Ministero della Salute, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a mantenere la trasparenza sui dati della COVID-19, sulle possibili cause e sullo stato della ricerca scientifica per quanto riguarda i progressi verso un vaccino, molte persone manifestano uno stato di sfiducia. Questa pandemia ci costringe a guardare in faccia la realtà per la quale nonostante i progressi tecnologici, una malattia infettiva sta sconvolgendo l’umanità.

  • Una buona conservazione delle risorse personali può aiutare il lavoro durante una pandemia globale?

    Oi Ling Siu. (2013). Psychological capital, work well-being, and work-life balance among Chinese employees. A Cross-Lagged Analysis. Journal of Personnel Psychology, 12, 170-180.

    Nel 2020 il mondo del lavoro ha dovuto affrontare nuove sfide. La pandemia globale relativa alla COVID-19 dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ha costretto le aziende a rivedere il benessere dei dipendenti in termini di risorse personali. A questo proposito, nel 2013 è stato effettuato uno studio da Oi Ling Siu dell’Università di Lingnan a Hong Kong, che si è mosso da due ipotesi: la prima presupponeva che il capitale psicologico (dove per capitale psicologico si intendono risorse personali concettualizzate sotto forma di capacità positive di autoefficacia, resilienza, ottimismo e speranza) è correlato positivamente con il benessere sul lavoro; mentre la seconda prevedeva che il capitale psicologico è correlato positivamente con l’equilibrio tra lavoro e vita privata dei dipendenti. Il metodo utilizzato per raccogliere i dati è stato un sondaggio su 287 lavoratori cinesi del settore  sanitario, riproposto a distanza di cinque mesi per testare l’effetto casuale del capitale psicologico sul benessere sul lavoro e sull’equilibrio tra lavoro e vita privata. I risultati ottenuti hanno confermato quest’ultima ipotesi, mostrando un effetto benefico del capitale psicologico su entrambe le variabili considerate, benessere in ambito lavorativo ed equilibrio tra lavoro e vita privata, in termini di soddisfazione sul lavoro e benessere fisico e psichico. Le misure raccolte in un secondo tempo hanno dimostrato che il capitale psicologico ha anche migliorato significativamente la vita lavorativa dei partecipanti. Quindi il capitale psicologico sembra rappresentare non solo un prerequisito affinché ci sia una situazione di benessere sul lavoro, ma è anche un presupposto per un maggiore equilibrio tra vita privata e lavorativa. Questo studio ha delle vere e proprie implicazioni pratiche ed è più attuale che mai. Per affrontare la sfida a cui oggi siamo chiamati è importante che un'organizzazione si impegni per la salute e il benessere attraverso investimenti in risorse umane poiché svolgere il proprio lavoro da casa, nonostante la presenza di una situazione d’emergenza mondiale, rappresenta una soluzione ideale per mantenere vivo il motore economico della nostra società occidentale. 

  • Coronavirus e social network

    Christina Peter, Constanze Rossmann e Till Keyling (2014). Roles of direct and indirect social information in conveying health messages through social network sites. Journal of Media Psychology, 26(1), 19-28

    Con l’avvento dei social network, in modo particolare con la nascita di Facebook, la comunicazione tra le persone ha subito dei cambiamenti. I rapporti umani evolvono per cercare di stare al passo con i tempi e con la tecnologia. Per questo motivo negli ultimi anni sono stati effettuati diversi studi che indagano come questa nuova forma di comunicazione è entrata a far parte della vita quotidiana. Uno studio condotto in Germania presso l’Università di Monaco da Christina Peter e Constanze Rossmann ha mostrato come ci siano le premesse affinché gli strumenti offerti da Facebook per l’interazione (commenti e like), possano influenzare l'atteggiamento delle persone verso informazioni sulla salute e sulle loro intenzioni comportamentali. Questo studio ha preso in considerazione un campione di 577 persone che hanno partecipato ad una discussione sul vaccino antiinfluenzale su Facebook. Gli studiosi hanno manipolato il modo di presentare l’argomento, predisponendo due versioni, una pro e una contro i vaccini. Gli obiettivi erano quelli di indagare: se le informazioni aggiuntive offerte dai social a livello di commenti potessero aumentare la capacità di influenza sulle percezioni e sui giudizi delle persone; se informazioni indirette a livello di post (es post like) possano aumentare l'influenza degli esempi di salute sulle percezioni e sui giudizi delle persone; se il grado di attività sui social e la percezione delle informazioni dirette possano avere un effetto sull’importanza percepita e l’impatto degli esempi di salute. I risultati non hanno evidenziato differenze significative tra i ‘’mi piace’’ e ‘’la distribuzione degli esempi positivi’’ per quanto riguarda il tasso di favorevoli alla vaccinazione ma un risultato quasi significativo per quanto riguarda la percezione del rischio tra coloro che leggono i commenti positivi al riguardo. In maniera del tutto sorprendente i ricercatori hanno scoperto che la loro manipolazione sperimentale ha interessato soltanto una parte del campione e in particolar modo coloro che avevano atteggiamenti positivi verso la vaccinazione antinfluenzale. Questo studio dunque conferma risultati precedenti che avevano messo in luce come i commenti possono influenzare l’atteggiamento delle persone verso informazioni sulla salute e le loro intenzioni comportamentali.

  • Il coronavirus uccide gli anziani non solo direttamente: l’aumento dei suicidi tra anziani durante l’epidemia SARS

    Paul S.F. Yip, Y.T. Cheung, P.H. Chau e Y.W. Law (2010). The case of severe acute respiratory syndrome (SARS) and suicide among older adults in Hong Kong. Crisis, 31(2), 86-92

    L’epidemia di SARS diffusasi alcuni anni fa in oriente aveva molte cose in comune con la pandemia attuale causata dal Coronavirus: infatti, la mortalità della SARS era molto più alta in persone di almeno 60 anni di età, come avviene con il Covid-19. Un aspetto connesso a questa epidemia in Oriente riguarda i suicidi delle persone di oltre 60 anni: si è assistito ad un picco di eventi suicidari in concomitanza con l’apice dell’epidemia SARS. Per comprendere come si legassero questi due fenomeni un gruppo di ricercatori ha condotto uno studio basandosi sui dati a disposizione nella regione Hong Kong durante l’epidemia di SARS. Questi hanno evidenziato come nel 2003 ci sono stati, durante il picco di epidemia SARS, oltre 300 suicidi tra persone di almeno 65 anni: è interessante evidenziare, come solo una persona fosse positiva alla SARS, mentre tutte le altre non avevano contratto tale virus. I ricercatori hanno quindi analizzato i bigliettini che tali persone hanno lasciato ai propri cari per spiegare questo gesto estremo: in linea con le ipotesi, una elevata percentuale di persone presentava dei sintomi psichiatrici e aveva già avuto esperienze di ideazione suicidaria. A prescindere da ciò, una gran percentuale di anziani ha dichiarati di aver paura di aver già contratto la SARS. Molte di queste persone non volevano in alcun modo andare in ospedale per paura di contrarre il virus, preferendo il suicidio al ricovero in ospedale. Inoltre, è interessante notare come lo stravolgimento della loro vita sociale fosse una delle principali cause di suicidio: infatti, molte persone hanno lasciato messaggi nei quali dichiaravano di aver paura dell’isolamento sociale, soffrivano particolarmente la riduzione dei contatti con altre persone, sino a descrivere come distrutta la propria vita sociale. Per concludere, questo studio condotto sulla SARS, che ha molti punti in comune con l’attuale pandemia, pone l’accento sulla necessità di prevenire un probabile aumento di suicidi delle persone anziane, principali vittime di questo virus: per fare ciò, è necessario fare in modo che queste persone non si sentano socialmente isolate, abbiano delle informazioni circa il loro stato di salute, in modo tale da combattere la percezione soggettiva di esser contagiati quando in realtà non è vero, e di aumentare la fiducia relativa alla possibilità di sopravvivere anche in caso di contagio.

  • In che modo la fiducia delle persone può aiutarci a contenere il coronavirus

    Michael Siegrist e Alexandra Zingg (2014). The role of public trust during pandemics: implications for crisis communication. European Psychologist, 19(1), 23-32

    Come tutti ben sappiamo, i comportamenti umani influenzano fortemente la trasmissione del coronavirus: il rispetto delle misure adottate dalle autorità è, quindi, una componente chiave per la gestione del rischio di contagio da Covid-19. Numerosi studi hanno dimostrato come le modalità comunicative delle autorità influenzano in larga parte i comportamenti delle persone circa il rispetto delle direttive imposte. All’interno di un contesto di gestione del rischio, come quello che stiamo vivendo, la fiducia verso le istituzioni è un fattore chiave, e aumenta di importanza nelle situazioni in cui le persone non hanno le conoscenze per interpretare le informazioni a disposizione. Per questo motivo, numerosi studi incoraggiano le autorità a trattare le informazioni circa la pandemia in maniera trasparente, così da informare la popolazione ad aumentare il grado di fiducia delle persone: in questo modo, si ottiene anche una maggior probabilità che le persone mettano in atto comportamenti in linea con le disposizioni atte al contenimento della pandemia stessa. Per capire come aumentare la cooperazione delle persone in questi contesti, sono stati proposti diversi modelli teorici; il modello TCC prevede che la cooperazione sia influenzata sia dalla fiducia delle persone verso le autorità che dal grado di percezione soggettiva del rischio: all’aumentare della fiducia e del grado di vulnerabilità personale si ha un maggior rispetto delle direttive imposte dall’autorità. Nonostante ciò, alcuni ricercatori hanno evidenziato come il ruolo della fiducia verso le istituzioni sia più importante rispetto a quello della vulnerabilità personale. In questo contesto il ruolo degli esperti è cruciale: infatti, numerosi studi attestano come le persone si fidino maggiormente degli esperti del settore, piuttosto che dei politici. Alla luce di questa rassegna, quindi, emerge la necessità di comunicare in maniera trasparente alla popolazione i rischi e la situazione in essere rispetto alla pandemia e ai comportamenti da mettere in atto; così come, appare giustificato l’ampio ricorso ai virologi da parte dei mass media: infatti, la popolazione si fida maggiormente del parere degli esperti, e questa fiducia permette di ottenere un maggior rispetto delle imposizioni che si hanno per il contenimento della pandemia.

  • Un buon clima organizzativo può agevolare il lavoro durante la pandemia globale?

    Paulina Bilinska, Jürgen Wegge e Matthias Kliegel (2016). Caring for the Elderly But Not for One’s Own Old Employees?. Organizational Age Climate, Age Stereotypes, and Turnover Intentions in Young and Old Nurses. Journal of Personnel Psychology, 15, pp. 95-105.

    L’emergenza sanitaria conseguente alla COVID-19 ha comportato un intenso lavoro da parte di medici, infermieri e personale sanitario. In una situazione come questa, un buon clima organizzativo è indispensabile affinché i pazienti ricevano le migliori cure e il personale si senta apprezzato. Nel 2016 Bilinska e Kliegel hanno condotto una ricerca sul clima organizzativo in relazione all’età, inteso come una percezione condivisa riguardante gli stereotipi dei lavoratori di età più avanzata, cercando di associare questo clima a episodi antecedenti di turnover (ovvero, intento di turnover, identificazione organizzativa e soddisfazione lavorativa). Il campione è stato scelto tra le case di cura medio-piccole presenti in Germania. I dati sono stati raccolti attraverso sondaggi proposti insede di lavoro, nel caso di strutture con un numero medio di 9 partecipanti per azienda. Si è cercato di bilanciare il campione tra giovani, ossia soggetti aventi meno di 40 anni, e anziani, ossia maggiori di 40 anni. L’87% dei partecipanti erano donne, dato che è tipico del settore infermieristico tedesco. Lo scopo principale di questo studio era introdurre il concetto di clima organizzativo per età e verificare se esso possa essere considerato come un costrutto utile e valido per migliorare la fedeltà delle infermiere geriatriche nei confronti della struttura e prevenire gli stereotipi negativi sul personale più anziano. I ricercatori hanno cercato anche di collegare l'organizzazione per età all'identità del personale. La ricerca ha mostrato che un buon clima organizzativo per età comporta anche delle minori convinzioni negative riguardanti gli stereotipi del personale anziano. Inoltre, questo clima, assieme alla soddisfazione lavorativa, è risultato essere strettamente dipendente dall’identificazione con questo assetto organizzativo da parte degli infermieri e del personale sanitario in genere. Gli autori hanno proposto due spiegazioni a tale correlazione. La prima: le infermiere scelgono volontariamente di lavorare nelle case di cura per gli anziani identificandosi con valori come prendersi cura e valorizzare le persone indipendentemente dall'età o dal grado di dipendenza dalle cure. La seconda: l’invecchiamento è una fase che riguarda tutti gli esseri umani quindi la preoccupazione non è solo del personale anziano ma anche di coloro che sono più giovani.

    Tuttavia, un buon clima organizzativo per età non dovrebbe essere una prerogativa solo del settore infermieristico, ma di tutti gli ambiti lavorativi poiché favorisce il buon andamento dell’impresa anche in una situazione di emergenza come quella attuale.

  • I messaggi istituzionali funzionano davvero?

    Nick Joyce e Jake Harwood (2014). Context and identification in persuasive mass communication. Journal of media psychology, 26(1), 50-57

    In questo particolare momento storico e sociale, l’importanza dei mass media come mezzo di comunicazione è sicuramente enorme. Le persone passano molto più tempo a casa, si informano di più e fanno un maggior uso dei mass media: hanno a disposizione tantissime fonti da cui trarre informazioni, come la televisione, i giornali nelle edizioni online, e il più vasto mondo di internet. Solitamente, le persone si interessano maggiormente in messaggi che provengono da chi condivide i propri valori e interessi, ance in momenti così particolari: ad esempio, durante l’epidemia di SARS un video rap sul virus aveva ottenuto un numero impressionante di visualizzazioni. Due ricercatori statunitensi hanno condotto uno studio per comprendere quali siano i messaggi maggiormente persuasivi, a prescindere dal contenuto degli stessi. I risultati hanno mostrato come fossero più efficaci messaggi prodotti da pari piuttosto che quelli istituzionali; questa caratteristica era anche in grado di influenzare la qualità percepita del messaggio in maniera controintuitiva: infatti, le comunicazioni istituzionali erano valutate come di qualità inferiore rispetto agli altri messaggi. Diversamente da ciò, i comunicati istituzionali generavano maggiori effetti sul comportamento: ad esempio, riuscivano a influenzare maggiormente gli atteggiamenti della popolazione. In aggiunta a ciò, è interessante evidenziare come al crescere della qualità percepita del messaggio si associava una maggior identificazione con il creatore del messaggio stesso, a sua volta associata all’atteggiamento generale verso il problema in questione. In sintesi, gli autori commentano tali risultati evidenziando come il contesto del messaggio non influenzi la capacità persuasiva generale dello stesso: per questo motivo, in modo tale da riuscire a persuadere il maggior numero possibile di persone, appartenenti a target tra loro molto diversi, consigliano di non concentrarsi solo su comunicati istituzionali e divulgati attraverso i classici mass media, ma anche sulla creazione di contenuti più fruibili da altre categorie di persone, come video di personaggi popolari su piattaforme digitali.

  • Lo stress è aumentato durante l’emergenza sanitaria?

    Marieke van den Tooren e Jan de Jonge (2011). Job resources and regulatory focus as moderators of short-term stressor-strain relations. A daily diary study. Journal of Personnel Psychology, 10, 97-106.

    L’attuale situazione di emergenza ha comportato cambiamenti a livello sociale, personale e lavorativo e ha portato con sé, di conseguenza, un aumento di stress in coloro che sono chiamati ad affrontare in prima linea quest’emergenza: gli operatori sanitari. A questo proposito, qualche anno fa è stato condotto uno studio da van den Tooren e de Jonge di 8 giorni su 64 infermieri che lavoravano in una casa di cura. I partecipanti avevano un computer tascabile e hanno dovuto compilare per otto giorni consecutivi un diario. Lo scopo della ricerca era quello di indagare se l’effetto di stress buffering, dovuto alle risorse lavorative e alle relazioni di sforzo a breve termine (cioè le interazioni giornaliere) tra le domande lavorative e lo stress lavorativo, accada più facilmente nel caso in cui ci sia una corrispondenza tra le richieste di lavoro e le risorse dei lavoratori. Lo sforzo si definisce in questo studio come la tensione cognitiva con cui i lavoratori sperimentano deficit di attenzione, elaborazione delle informazioni e memoria operativa. La ricerca intendeva inoltre indagare se lo sforzo si verificasse con maggiore possibilità nel caso in cui i lavoratori erano prevalentemente focalizzati sulla promozione piuttosto che sulla prevenzione.                                       

    I risultati hanno rivelato solo un singolo effetto stressante sulla persona in termini di risorse di lavoro non corrispondenti. Inoltre, è stato dimostrato che il focus regolatorio del lavoratore non ha avuto un contributo significativo sulla previsione della tensione lavorativa. Sulla base di questi risultati, gli autori hanno concluso che non esiste un supporto rispetto a quanto da loro inizialmente ipotizzato quando si studiano i processi intrapersonali nel contesto della vita lavorativa giornaliera.

    Attualmente sono in atto diversi studi che cercano di misurare le variabili come lo stress e l’impatto che questo ha sulla vita delle persone che si sono trovate in prima linea ad affrontare una pandemia globale.

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